Ho sempre amato l’estate.
Oggi c’è il caldo sbagliato delle metropoli sporche e stanche, mi si appiccica addosso come una gomma da masticare alla suola.
Mi si appiccica una gomma da masticare alla suola. Sbuffo. Cerco di ignorarla ma dopo qualche passo mi fermo: c’è un’aiuola. Posso sfregare la scarpa e sfogare la mia frustrazione contro questo pezzetto di natura sporco e stanco, incastrato tra il cemento del marciapiede e l’asfalto rovente della strada. Non risolvo molto.
Alzo lo sguardo in un moto d’irritazione: anche il cielo è sbagliato. Vedo un ottobre impaziente, che incapace di aspettare il suo turno si agita sbraita spinge e comprime luglioagostoesettembre, concentrando il bel clima dei mesi estivi in un’afa bagnaticcia delle due del pomeriggio. Sì, è proprio ottobre a pesare su questa giornata. Una corte di nubi antipatiche e di pessimo umore mi guarda beffarda: aspetta il momento perfetto, peggiore, per farmi piombare addosso un temporale estivo da raffreddore istantaneo, di quelli che fanno paura ai cani, ti incollano i vestiti addosso e si mischiano al sudore.
Continuo ad amare l’estate. Principalmente perché l’inverno è peggio.
Continuo anche ad avere una gomma sotto la suola. È fastidiosa, trattiene un poco ogni mio passo. L’umidità dell’aria grigia e calda mi rallenta, quasi ci nuoto. Nel cuore ho il peso di un nuovo amore che mi annebbia i pensieri.
Mi sembra di essere pesantissima.
Forse lo sono, perché quando riprendo a camminare e passo su una pozzanghera ci cado dentro.
Era una pozzanghera da poco, saranno stati due centimetri di profondità, davvero una cosa ridicola: potete immaginare il mio stupore nel ritrovarmici tutta intera. Intorno a me c’è lo stesso paesaggio di prima, ma capovolto: è tutto a testa in giù, me compresa. I miei piedi sono ancora sulla pozzanghera, ci sono agganciata come se qualcuno mi avesse afferato dalle caviglie e mi tenesse a penzoloni sul vuoto. Penso che è così che dev’essersi sentito Achille quando la madre Teti lo ha immerso nel fiume dell’immortalità tenendolo per il tallone; poi penso che non c’entra proprio niente e che dovrei cercare di capire la situazione. Guardo su, che poi è giù, e vedo lo stesso opprimente ottobre, anche se capovolto. Guardo giù, che poi è su, e vedo la stessa me stessa, che mi osserva dall’alto in basso.
Mi guardo guardarmi: mi aggiusto i capelli, faccio una mezza coda veloce e pigrissima con un’elastico vecchio che non sembra voler collaborare, sbatto il piede nella pozzanghera. Mi ricordo della gomma attaccata alla suola e penso che sono fortunata, io del mondo a testa in su, a dover risolvere solo quel problema. Io del mondo a testa in giù me la sto passando decisamente peggio, così appesa.
Poi mi vedo andarmene.
E rimango lì.
Non ho molto altro da fare se non guardarmi intorno ed aspettare che io, cioè lei, cioè l’altra me dalla città di sopra mi torni a prendere. Allora mi metto a riflettere, ironicamente, sulla mia condizione di riflesso dimenticato.
Penso che sono proprio distratta ultimamente: dove ho la testa, per scordarmi una cosa così importante in una lurida pozzanghera sul marciapiede? Se proprio dovevo dimenticarmi di me, potevo farlo in un laghetto carino, in uno stagno dentro ad un bel parco, tra le onde del mare o, come fanno tutti, in un bicchere di vino il venerdì sera. Invece no, mi sono proprio lasciata qui. Pensavo così tanto che mi sono scordata di me. Un po’ mi sento in colpa adesso, anche se questa situazione non è propriamente colpa mia. Pazienza, mi chiederò scusa quando tornerò a prendermi. E se invece non tornassi più? Se mi dimenticassi per sempre di rimettermi tutta insieme? O ancora peggio, potrei pensare che non ne valga la pena: perché dovrei stare a cercare una pozzanghera a caso in tutta una città solo per riprendere un riflesso di un attimo presto dimenticato? Mi dispiacerebbe molto se non tornassi, ma non so bene perché. Probabilmente nascosta in questa sensazione c’è una grande lezione sulla vita, sull’accettazione di sé, sull’integrità, sulla coerenza, sulla resilienza, la pace, l’anarchia l’utopia l’entropia la magia e la bellezza e il dolore. Adesso però non mi viene in mente. Be’ credo, temo, di avere tanto tempo a disposizione.
Continuerò a riflettere, così magari arrivo dove dovevo arrivare, ma se per la strada dimenticassi un altro riflesso, in un’altra pozzanghera?
Forse è meglio se smetto di riflettere e rifletto e basta.
Nata quasi all’esatta metà del 1999,
in bilico tra i millenni, ha studiato lingue per cinque anni al liceo ed uno all’estero per poi iscriversi a beni culturali. Indecisa cronica.
Cambia hobby intorno al quale plasmare tutta la sua personalità una volta a settimana.
Dicono di lei:
«Non finisce mai niente» (Fratello)
«Parla tanto ma non si arrabbia mai» (Mamma)
«Non puoi avere male alle ginocchia a vent’anni, ti prego, alzati dal divano» (Papà)