Una volta mi hanno fatto giocare ad un gioco, uno di quelli introspettivi e significativi. Ti viene data una tabella con varie sfere della vita di una persona: vitto, alloggio, intrattenimento e così via. Per ogni categoria ci sono vari livelli, che si differenziano per il punteggio. Ad esempio, il livello base per la spesa si avvicina ad andare al supermercato e prendere i prodotti scontati, mentre un livello con più punti significa che si investe di più in quella categoria, ad esempio andando a mangiare spesso fuori. Ti viene dato a disposizione un determinato numero di fagioli da posizionare nelle varie sezioni: sta a te decidere come spenderli. C’è chi preferisce investirli in una buona macchina, chi vuole una casa grande, chi vuole puntare tutto sullo svago. Insomma, è un gioco che ti aiuta a indagare sulle tue priorità.
Al turno successivo, il numero di fagioli si riduce, vuoi per una malattia, una lavastoviglie rotta, o un altro imprevisto dispendioso. Come li gestisci ora quei soldi? Che spese tagliare? Risulta proprio questo il punto più interessante del gioco, perchè occorre uno sforzo per capire a cosa si può rinunciare e a cosa no. Per quanto riguarda le categorie considerate indispensabili, ve ne sono due a cui non avevo pensato. La prima è in realtà piuttosto banale e decisamente americana, e si tratta dell’assicurazione sanitaria. Ma visto che non ci riguarda molto da vicino, possiamo escluderla da questo discorso. Il secondo punto, invece, non è altrettanto immediato: mai togliere troppo tempo, energie, e risorse materiali a ciò che fa migliorare i rapporti umani, che si tratti di preparare un dolce, aiutare il vicino di casa a montare un mobile o che altro. Può sembrare banale a posteriori, ma quei pochi fagioli che avevamo li volevamo impiegare tutti nelle spese indispensabili, e le relazioni sociali non ci sembravano tali.
Queste riflessioni erano rimaste nel dimenticatoio della mia testa per qualche anno, e sono riaffiorate solo recentemente. Più precisamente, sono riaffiorate quando ho davvero colto il valore della comunità, che ha poco spazio nel nostro mondo individualista. A far scattare la scintilla è stato il trasferimento in uno studentato dove condivido il bagno e la cucina con quattordici persone. Aspettative? Infime. Alla peggio, fornelli costantemente sporchi, pile infinite di piatti da lavare, verdure che spariscono dal frigo e pentole che camminano nella notte. Alla meglio, una pacifica convivenza con degli sconosciuti, un frettoloso buongiorno al mattino e cenni di saluto nel corridoio. Si è rivelato invece l’opposto di quanto mi aspettavo, e se due settimane fa mi avessero detto che mi sarei sentita davvero in famiglia, non ci avrei creduto. Mi fa un po’ paura scriverlo perchè è solo l’inizio, perchè non si sa mai, perchè non voglio gufarla. Finora, però, il mio gruppo-cucina si è rivelato il gruppo con cui mi sto trovando meglio.
Alla base della convivenza tra membri-cucina, e in generale tra gli studenti dell’edificio, oltre a valori come il rispetto e il lasciare i propri spazi, c’è proprio quello della comunità. Fondamentalmente, siamo tutti sulla stessa barca, e se qualcuno porta gli attrezzi, e qualcun altro è al timone, magari riusciamo a non farla affondare. Si sono rivelati tutti molto disponibili in primis da un punto di vista pratico, per quanto riguarda condivisione di pentole, divisione delle pulizie, e quant’altro, e questo poi ha portato a un clima accogliente e amichevole. È stato proprio questo senso di comunione affettiva, per così dire, che mi ha stupito di più. Un circolo virutoso che inizia dal “Mi presti il rosmarino?”, si evolve in “Mi è avanzato del riso con verdure, ne vuoi un po’?” e arriva alla cena internazionale, in cui a turno si cucina un piatto tipico per tutti. Ora, quando cucino preparo sempre un po’ di pasta in più, un po’ perchè non ho una bilancia, un po’ perchè la pasta condivisa è più buona.