Sottoni di professione

Io sono sempre stata una sottona.

“Sottone/a” e affini (“sottonare”, “sottanza”) sono termini dello slang giovanile contemporaneo. “Sottone” corrisponde grossomodo all’inglese “simp”e si usa per descrivere una persona che quando prova attrazione verso qualcun altro tende ad assumere atteggiamenti servili, ossessivi, svilenti, persino imbarazzanti. Il termine stesso suggerisce un volontario “mettersi sotto”, farsi zerbini.

Io sono sempre stata una sottona e non me ne vergogno neanche troppo. Anzi, vi dirò di più, c’è stato un tempo in cui sottonare era quasi un mestiere.

Nel Settecento in alcune città italiane insieme all’Illuminismo fiorì la moda del cicisbeismo. Il cicisbeo era un giovane, la maggior parte delle volte celibe ma non esclusivamente, che entrava a servizio di una donna sposata con il compito di tenerle compagnia, accompagnarla nelle uscite in società, servirla, riverirla, proteggerla, assecondare i suoi capricci e le sue richieste di ogni genere. Legami sentimentali e relazioni intime tra un cicsbeo e la sua signora non erano previsti d’ufficio, ma spesso erano inevitabili ed inevitati. Lo stesso Alessandro Manzoni è probabilmente nato da uno di questi rapporti, tra la madre Giulia Beccaria, (figlia di Cesare Beccaria, l’autore del trattato “Dei delitti e delle pene” dove per la prima volta si metteva in discussione la pena di morte) ed il suo cicisbeo Giovanni Verri, fratello minore dei più noti Pietro ed Alessandro Verri (fondatori del periodico milanese Il Caffé, principale veicolo di diffusione delle idee illuministe in Italia).

Una via di mezzo tra il servo personale ed il marito, il cavalier servente, come veniva anche chiamato, divenne poi nel corso del Settecento un vero e proprio must have per le nobildonne italiane: presentarsi in occasioni mondane senza almeno un cicisbeo al proprio fianco era motivo d’imbarazzo, e d’altra parte ormai la figura faceva parte del contratto matrimoniale. Insomma, la presenza di un cavalier servente, quando non erano due o tre o quattro, era stabilita, palese, dichiarata ed indispensabile alle dinamiche della coppia sposata. In un matrimonio era necessario un cicisbeo come erano necessarie le fedi, un bel vestito da sposa e, si direbbe, l’amore. In realtà non era così: l’istituzionalizzazione di questa figura metteva proprio le radici nella pratica del matrimonio combinato e la diffusissima convinzione che tra moglie e marito non ci dovesse necessariamente essere un legame sentimentale. Così, lo sposo che si dimostrasse tanto geloso da non volere che la sua donna fosse costantemente accudita da un altro uomo veniva additato come patetico e troppo innamorato.

In ogni caso, il marito aveva certamente voce in capitolo nella scelta del cicisbeo e spesso cercava di limitare i danni eleggendo al delicato compito un amico fidato. Tuttavia questo non era sempre possibile, perché, come afferma Roberto Bizzocchi nel suo studio del 2008 Cicisbei, morale privata ed identità nazionale in Italia: “la cooptazione e il servizio di un cicisbeo non erano un affare intimo, ma il frutto di un accordo socialmente rilevante”. Essere il cavalier servente di una signora importante poteva infatti costituire il biglietto d’ingresso nell’alta società per giovani uomini colti ed aitanti, pertanto tutta la nobiltà aveva interesse nello stabilire accuratamente chi meritasse un tale trampolino di lancio. Non a caso, la pratica del cicisbeismo, a lungo considerata esclusivamente italiana ma che in realtà ebbe manifestazioni, per quanto decisamente più limitate, anche in altri paesi, si diffuse principalmente in quelle città dove il ceto nobiliare era energico e vivace ed inserito attivamente nella vita politica, come Firenze, Venezia, Milano e soprattutto Genova. Nello scritto Costumanze e sollazzi del 1883 dello storico genovese Achille Neri la pratica del cicisbeismo, anche specificamente per quanto riguarda il capoluogo ligure, viene abbondantemente trattata in alcuni paragrafi facilmente reperibili online.

Un altro motivo di fortuna del costume che vedeva il cavalier servente come necessario al funzionamento di un matrimonio stava nel ruolo di guardia e controllore che poteva essere assunto dal cicsbeo nei confronti della signora. D’altra parte, è solo dalla fine del Seicento che le donne avevano ottenuto la possibilità di partecipare alla vita mondana e alle conversazioni nei salotti, ed è proprio a fine Seicento che nacque ed iniziò a diffondersi il cicisbeismo.

Per quanto istituzionalizzata, diffusa ed accettata nei ceti superiori la pratica non scampò a feroci critiche sia contemporanee che successive, basti pensare alla satira pariniana ne Il Giorno o alle commedie di Goldoni. All’estero i cicisbei non vennero attaccati con altrettanta furia, rimasero sempre un curioso e spassoso elemento del folclore italiano di cui era più facile ridere che lamentarsi.

A fine Settecento con la diffusione degli ideali della Rivoluzione Francese il cicisbeismo venne poi additato come controrivoluzionario, corollario di uno stile di vita dedito al piacere ed al lusso sfrenato non più compatibile con la mentalità ottocentesca. La moda passò ed i cicisbei rimasero per sempre rinchiusi tra le pareti dorate del Secolo dei Lumi.

Con loro rimase nel Settecento anche la possibilità di noi sottoni di fare carriera con la sola devozione, amando senza essere ricambiati. Peccato.

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