Impronte e spazzolini

Il 24 settembre 2021 si terrà lo sciopero globale per il clima, organizzato da Fridays For Future in previsione della Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. La notizia dello sciopero, letta per la prima volta frettolosamente sui social, mi ha subito riempita di gioia. Non perché è forse un segnale che esiste, anche dopo l’apocalisse, un movimento globale capace di scendere in piazza per il clima. Neanche perché sono del tutto convinta che farlo produrrà davvero il cambiamento di cui abbiamo bisogno in questo momento. No, la notizia mi ha riempita di gioia perché gli scioperi per il clima fanno per me, me personalmente, qualcosa che di questi tempi è piuttosto raro: mi fanno stare bene. Per due o tre ore, respiro.

Se nel 2003 foste stati in Gran Bretagna e aveste acceso la televisione, probabilmente vi sareste imbattuti in uno spot che iniziava così: “Quanto è grande la tua carbon footprint?”. Lo spot continua con inquadrature di persone per strada, evidentemente impegnate a tentare di rispondere alla domanda. Ridono, si confondono, danno l’impressione di essere state fermate mentre andavano al lavoro, o facevano una passeggiata, e di essere ora sinceramente curiose e preoccupate. “Possiamo fare tutti di più per emettere di meno” concludeva lo spot. “Scopri come ridurre la tua carbon footprint su bp.com/carbonfootprint”. Il breve messaggio pubblicitario faceva infatti parte di una campagna da 250 milioni di dollari finanziata dalla British Petroleum, compagnia petrolifera undicesima tra le 100 aziende responsabili, secondo un celebre studio, del 71% delle emissioni di gas serra nel mondo tra il 1988 e il 2015.

La campagna pubblicitaria della BP fu direttamente responsabile, nei primi anni 2000, della diffusione a livello mediatico e popolare del termine carbon footprint. L’idea di carbon footprint fa riferimento alla quantità di emissioni di gas serra prodotte da un individuo in un dato periodo di tempo. Dopo la campagna, la BP introdusse un contatore sul proprio sito internet per permettere alle persone di misurare la propria impronta. Più di recente, ha finanziato la creazione di un’app che fa la stessa cosa.

La storia del concetto di carbon footprint mi fa arrabbiare; in parte perché è la storia di come una grande azienda petrolifera ha distratto con successo milioni di persone dalle proprie malefatte, ma non è solo questo il motivo. Mi fa arrabbiare, perché è per via di storie come questa se io, e tantissimi altri come me, ci sentiamo ansiosi, impotenti, confusi, più di tutto ci sentiamo in colpa. L’idea che la colpa del surriscaldamento globale sia in qualche modo equamente distribuita tra tutti gli abitanti della Terra, l’idea che ciascuno di noi sia individualmente responsabile dinanzi a questa tragedia di immani dimensioni, l’idea che ciascuno di noi sia solo dinanzi ad essa, è studiata ad arte per affogare nel senso di colpa individuale qualunque legittimo impulso a guardare alle responsabilità delle grandi aziende, ai difetti letali del sistema in cui operano.  

Il problema di porre l’enfasi sulla responsabilità individuale non è soltanto che ciò distrae la maggioranza delle persone dai misfatti delle grandi aziende, o che farlo ha contribuito ad alimentare l’ansia e il malessere di un’intera generazione. Il vero problema è che questo modo di pensare preclude la possibilità di concepire un’azione politica collettiva contro le cause del surriscaldamento globale e dell’inquinamento: se la responsabilità è individuale, si suppone che anche la sua assunzione debba esserlo. A questo punto l’ansia, il senso di rabbia e di impotenza vengono incanalati in soluzioni placebo come il contatore della BP, gli spazzolini di bambù, il veganesimo o i vestiti usati: tutti sport praticabili in solitaria, che non mettono seriamente in discussione le premesse o le modalità con cui il sistema che ci ha condotti sull’orlo del baratro opera.

Non posso fare a meno di pensare che ogni grammo di derivati della soia, ogni spazzolino di bambù, sia un’altra concessione all’idea nefasta che l’unica veste in cui possiamo sperare di produrre cambiamento nel mondo sia quella di consumatori. Privati della possibilità di agire politicamente come cittadini, non resta che essere soggetti passivi, capaci di esercitare soltanto il grado di autodeterminazione che qualcuno sul mercato riesce a venderci avvolto in un packaging minimale riciclabile. Questo non significa che essere vegani, comprare vestiti usati o avere uno spazzolino di bambù sia sbagliato: ho troppe paia di jeans vintage nell’armadio per scrivere una cosa del genere su internet. Significa soltanto che spero saremo in tant* in piazza, il 24 settembre. Finché ciascuno di noi non smetterà di trattare il cambiamento climatico come la propria finale di Wimbledon, respirare diventerà sempre più difficile.

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