Ho perso

Io perdo sempre tutto.

Perdo anelli, bracciali, orecchini, collane, calzini, guanti, sciarpe. Una volta ho perso un cappello che mi hanno regalato a Natale la sera di Capodanno. Perdo penne e matite, gomme e temperini, pennarelli e squadrette: alle elementari i miei genitori erano convinti che avessi dei bulli segreti che mi rubavano la cancelleria per dispetto. Perdo treni, autobus, corriere, tram, metro. Perdo le chiavi di casa almeno due volte a settimana, ma poi le ritrovo sempre in qualche borsa; perdo le mie borse, ma poi le ritrovo sempre in qualche armadio. Perdo documenti, fotocopie, ricevute, certificati, lettere; mio papà tiene tutte queste cose in delle cartelle ben organizzate nello sgabuzzino: siamo molto diversi. Perdo il filo del discorso quasi ogni volta che apro bocca e perdo delle parole o dei passaggi quasi ogni volta che qualcun altro apre bocca. Perdo dei pezzetti di ricordi, man mano che cresco, che invecchio. Perdo ancora l’orientamento nei vicoli di Genova e ogni tanto mi tocca farmi guidare da Google Maps, come i turisti olandesi. Perdo i capelli quando mi spazzolo per togliere i nodi. Perdo la motivazione, perdo il coraggio, perdo la concentrazione; perdo tempo, sempre. Perdo il buon umore facilmente se piove o è nuvoloso. Perdo di vista le zanzare quando sono lì lì per schiacciarle e perdo sempre più gradi di vista col passare degli anni. Perdo le parole giuste quando devo fare discorsi sinceri. Perdo amicizie e amori, mi scivolano dalle dita e soffro molto, tanto che perdo il sonno.

Tra le altre cose, due volte ho perso il cellulare. La prima me l’hanno rubato in autobus a Genova, la seconda me l’hanno rubato in metropolitana a Milano. Evidentemente non imparo dai miei errori. La seconda volta insieme al telefono ho perso quasi tre anni di poesie e racconti e bozze di storie che tenevo nelle note, tra le liste della spesa e i punti delle partite a carte. Era una bella raccolta di materiale: la maggior parte patetica, drammatica, preziosissima spazzatura adolescenziale e subito-post-adolescenziale che sarebbe rimasta nascosta per sempre; forse c’era anche qualcosa di decente che avrei rielaborato, prima o poi, ma non è questo il punto. Il punto è che ho perso una parte di me.

Ho pianto come se avessi perso un amico.

So che ci sono cose più gravi che perdere le note del cellulare, ma so anche che è lecito soffrire per qualcosa di piccolo ed irrilevante, che non c’è dolore che sia cancellato dal dolore più grande di qualcun altro. In quelle frasi mediocremente accostate c’era la bellezza di una libertà senza confini, intoccata ed intoccabile dal giudizio mio o di altri. C’erano tutte le mie emozioni: pure e violente, cupe e radiose.

Quindi piango per le mie poesie perdute.

Piango per la me che le aveva scritte e che viveva tra quelle parole. Piango perché non c’è stata grazia nella mano che ha sfilato il telefono dalla tasca della mia giacca. Piango per la crudele necessità che ha spinto quella mano nella tasca della mia giacca. Piango per la banalità di ciò che è successo.

Non mi piace che perdere significhi sia smarrire che subire una sconfitta, perché quello che si perde prima o poi viene sempre ritrovato o recuperato e perché io, che perdo sempre tutto, non mi sento quasi mai vinta. Quasi mai, ma questa volta sì. Sono stata sconfitta da un gesto brutale e brutalmente comune, noioso, grigio, prevedibile, al più fastidioso. Mi sono fatta rubare le emozioni da un ladro di cellulari nella metro di Milano: umiliante, dovevo aspettarmelo. Devo aspettarmi che non ci sia cura, che non ci sia delicatezza, che non ci sia amore intorno a me. Non ci sono aggettivi vezzosi con cui posso colorare questa storia, non ci sono risvolti comici o colpi di scena. Non vale neanche la pena arrabbiarsi: era un telefono vecchio e avrei dovuto stare più attenta. Sono stata lasciata così, su un binario affollato e banale in una città affollata e banale, all’improvviso senza emozioni.

Quindi piango per le mie poesie perdute: da qualche parte dovrò pur ricominciare.

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