Eight days a week

È una verità universalmente riconosciuta che la pandemia abbia portato con sé mutamenti epocali al mondo del lavoro. Se non altro da un lato ha incancrenito dinamiche di sfruttamento preesistenti, dall’altro ha accelerato riflessioni molto interessanti che lottavano da anni per essere prese in considerazione.

Per quanto riguarda questa seconda conseguenza, nell’era dello smart working e della follia di dover lottare per il diritto alla disconnessione, è abbastanza naturale che le persone inizino a domandarsi se non ci sia un altro modo per vivere.

D’altronde la settimana lavorativa articolata su cinque giorni, dalle 9 alle 17, è nata in un periodo storico dove le vite delle persone erano decisamente diverse dalle nostre. Tanto per cominciare, raramente i nuclei familiari erano formati da un’unica persona e nelle coppie era solitamente un unico membro a lavorare. Ciò faceva sì che ci fosse qualcuno il cui lavoro era quello di occuparsi del mantenimento della casa e della cura dei figli. Quello che accade ora è che mentre chi vive da solə deve barcamenarsi tra tempo pieno, faccende domestiche e vita sociale, nelle famiglie è troppo spesso sempre solo un componente ad occuparsi dei lavori di casa, però adesso ha a sua volta un lavoro a tempo pieno. 

La britannica “4 Day Week Campaign”, tra le tante altre, si batte affinché venga presa in considerazione la possibilità di ridurre l’orario lavorativo a 32 ore settimanali (contro le classiche 40), articolate su quattro giorni e senza diminuzioni di stipendio. Interessante è come la campagna non prometta solo benefici per i dipendenti, quali un migliore bilanciamento tra la vita lavorativa e la vita privata, maggiore riposo, tempo per occuparsi delle commissioni e per il divertimento, ma sensibili incrementi per la produttività anche per datori di lavoro. Per farla breve, l’idea è che dipendenti più sereni e felici hanno migliori prestazioni nel tempo in cui sono effettivamente al lavoro. Inoltre una settimana lavorativa di quattro giorni permetterebbe di ridistribuire le ore tra più persone, contribuendo alla lotta a disoccupazione e sottoccupazione. 

Sembra effettivamente troppo bello per essere vero, ma gli studi sul tema sembrano legittimare queste proposte. L’organizzazione di ricerca Autonomy ha curato i report di due esperimenti portati avanti dall’Islanda tra il 2015 e il 2019, quando 2500 lavoratori (non una cifra irrisoria se si considera che si tratti di più dell’1% della popolazione) hanno diminuito le ore di lavoro a 35/36 con la stessa paga di prima. Nella maggior parte dei luoghi di lavoro la produttività e la fornitura di servizi è aumentata o rimasta invariata e la salute dei lavoratori è migliorata esponenzialmente. Il successo dell’esperimento è stato tale che ad oggi sono l’86% i cittadini che lavorano meno ore o sono in procinto di ottenerne il diritto. 

Tragicamente il nemico più grande di questa rivoluzione nel modo di intendere il lavoro è la nostra mentalità. In un’epoca di scalate al successo e hustle culture è difficile immaginare qualcosa di più controcorrente, ma ora più che mai è fondamentale rendersi conto della netta distinzione tra un lavoro che ci rende orgogliosi e soddisfatti e uno stato di perenne frustrazione dove il nostro impiego fagocita tutto ciò che ci circonda. Dati alla mano, ci si domanda cosa stiamo aspettando a cambiare le cose, ma soprattutto a farci venire il dubbio che a qualcuno venga comodo avere cittadini insoddisfatti, stanchi e senza tempo. 

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