Perchè hanno ucciso Jaurès?

“Cittadini, voglio dirvi questa sera che mai siamo stati, mai, da quarant’anni, l’Europa è stata in una situazione più minacciosa e più tragica di quella in cui siamo nel momento in cui ho la responsabilità di rivolgervi la parola…” 

Comincia così il discorso pronunciato il 25 luglio 1914 a Lione dal leader socialista francese Jean Jaurès. Convinto antimilitarista, nel discorso Jaurès denunciò le responsabilità delle potenze imperialiste europee, inclusa la Francia, nell’aver condotto il continente all’orlo della Prima Guerra Mondiale. Jaurès era uno tra i socialisti europei che si opposero a quella che oggi definiremmo l’escalation che portò al conflitto. Come sappiamo, la maggior parte di essi finì poi per abbandonare la strada dell’internazionalismo, stringendosi intorno alla propria bandiera. Jaurès non ne ebbe il tempo: morì pochi giorni dopo il discorso di Lione, il 31 luglio, ucciso con due colpi di pistola alla schiena da un nazionalista francese. 

Ho ripensato a Jean Jaurès ascoltando le parole rivolte martedì dal Presidente ucraino Zelensky al Parlamento italiano. “Il nostro popolo è diventato l’esercito” ha ripetuto più volte Zelensky. Ha evocato le immagini che da quasi un mese rimbalzano senza sosta su media e social media: città distrutte, bambini morti, questi ultimi a causa della “procrastinazione” dei paesi occidentali. “Popolo italiano”, ha detto “il loro obiettivo è l’Europa”. Un appello in sostanza emotivo, nel corso del quale Zelensky non si è risparmiato un riferimento velato al rischio che la guerra nel granaio del mondo lasci senza cibo “decine di milioni di persone […] davanti alle vostre coste.” Per quanto non privo di momenti retorici alla “italiani brava gente”, il discorso sembrava mirato a ispirare non solidarietà e compassione, ma paura. 

Con la sua retorica manichea, il discorso è testimonianza della militarizzazione del linguaggio, della società civile ucraina (e non) e della vita politica ed economica internazionale in atto. Le parole di Zelensky risultano però comprensibili da parte del Presidente di un paese vittima di aggressione. Lo stesso non si può dire della risposta di Mario Draghi, che si apre con una lode al “patriottismo” di Zelensky, inteso, ancora una volta, come militarismo: “il vostro popolo è diventato il vostro esercito”. “Oggi l’Ucraina […] difende quell’ordine multilaterale basato sui diritti che abbiamo costruito dal dopoguerra in poi” ha continuato, celebrando l’unità tanto dell’Unione Europea quanto dell’Alleanza atlantica (quasi come di due entità con la stessa portata politica e morale). Draghi ha inoltre lodato una volta di più la “solidarietà enorme” degli italiani, il “senso di accoglienza che è l’orgoglio del nostro paese”. 

A costo di risultare monotematica, credo prima di tutto sia importante ricordare una volta di più che 23.000 morti nel Mediterraneo negli ultimi otto anni fanno dell’Italia tutto meno che un paese accogliente di cui andare orgogliosi, e dell’Unione Europea tutto meno che il baluardo di un ordine basato sui diritti. Ciò detto, riconosco che la solidarietà ai profughi ucraini sia in questo momento un dovere di tutt3, e credo che la capacità collettiva delle persone di mobilitarsi nel momento del bisogno debba essere letta come un segnale di speranza per un futuro sempre più incerto. Ciò che davvero mi spaventa del discorso di Zelensky, e più ancora di quello di Draghi, è la facilità con cui la retorica di guerra si insinua in discorsi pronunciati, almeno teoricamente, per la pace. 

Jean Jaurès fu ucciso mentre era impegnato a battersi per tentare di scongiurare lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ucciso, forse, perché non abbastanza “patriota”. Oggi siamo abituati a pensare al primo conflitto mondiale come al paradigma della guerra inutile, ingiustificata, causata soltanto dall’aggressività delle potenze coinvolte. Persino il ruolo della Germania, considerata storicamente la principale responsabile del conflitto, è stato col tempo in parte rivalutato. Nel caso dell’Ucraina, la natura violenta della retorica militarista occidentale è molto complessa da problematizzare dinanzi all’enormità dell’aggressione assolutamente illegittima da parte di uno stato autoritario. Per questo, forse, è così difficile in questa situazione dire “qualcosa di sinistra”, almeno per me. 

Il discorso di Jaurès si conclude con un’esortazione a che “il proletariato raccolga tutte le proprie forze […] e tutti i proletari francesi, inglesi, tedeschi, italiani, russi, […] si uniscano affinché il battito unanime dei loro cuori scongiuri l’orribile incubo”. Non si può fare a meno di pensare che forse, per Jaurès era più facile, dire “qualcosa di sinistra”: valli a trovare ora i proletari, in Francia come in Russia. Forse è vero, viviamo in un mondo irrimediabilmente più complesso di cento anni fa. Questo, però, non sembra aver impedito a fatti, idee e parole smaccatamente novecenteschi di farsi strada in poche settimane fino al centro delle nostre vite. Forse, allora, non è il fattore umano che manca, non “il battito unanime”, ma la nostra capacità di leggerlo e pensarlo per quello che è. 

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