Qualche anno fa avevo iniziato un esercizio di sviluppo personale a cui mi dedicavo un paio d’ore ogni mese. Bisognava dividere un quadrante in otto spazi, corrispondenti ai settori che riteniamo più importanti nella nostra vita, e colorare il livello che ci sembrava di aver raggiunto in ognuno di essi in una scala da uno a dieci. Personalmente, accompagnavo ogni voto ad una riflessione scritta sugli avvenimenti più salienti in ogni determinato settore, aggiungedo poi gli obiettivi o suggerimenti per il mese successivo. È stato un esercizio che mi ha lasciato tanto. In primis, sono riuscita davvero a capire fino in fondo il concetto di trade-off, scendere a compromessi: il tempo che abbiamo è limitato, e scegliere di impiegarlo in qualcosa implica tralasciare altro, oppure fare un poco di tutto ma in modo più mediocre.
Eppure, nonostante mi abbia aiutato a conoscermi meglio, c’è un problema che ho riscontrato alla base di questo esercizio. O meglio, nel mio approccio con l’esercizio stesso: non mi sono mai data 10 in alcuna categoria. Certo, c’è stato il mese in cui sono uscita di più con le amiche e ho rafforzato dei rapporti importanti… ma una vocina nella mia testa mi diceva che la mia vita sociale potrebbe andare ancora meglio. La stessa vocina mi diceva che avrei potuto studiare di più, fare più sport, mangiare in modo più sano, e via dicendo. Non mi sono mai concessa un punto di arrivo, il momento della pacca sulla spalla. Non si tratta però di un problema esclusivamente individuale. La pacca sulla spalla magari viene data ai migliori, a chi eccelle, ma viene seguita poi da uno spintone verso il dirupo successivo, verso la sfida del livello seguente. Nessuno riesce a sconfiggere il cattivo e sentirsi al sicuro, nessuno riesce a trovare il tesoro e godersi il premio meritato.
Questa visione della vita come un continuo progresso e ascensione verso la nostra migliore versione di noi stessi ci condiziona in ogni aspetto. Ad esempio, è stata proprio questa sensazione a spingermi a scrivere queste parole. Al momento, non sento di avere granchè da condividere, e quindi a che pro pubblicare un articolo, se questo non è più brillante, sagace, e interessante di quello precedente? Sento un dovere interiore di trasformare tutto ciò che vivo e tutto il tempo che trascorro in qualcosa di utile. Tutto deve essere in funzione di qualcosa: persino la mia non voglia di scrivere deve essere trasformata in una riflessione che possa essere pubblicata. Perfino quando si fa qualcosa di “inferiore” rispetto a qualcosa fatto nel passato (quindi si cade o si fallisce), allora entra in gioco la retorica del “ciò che non uccide, fortifica”. L’errore serve per imparare qualcosa e migliorarsi, per arrivare ad un punto più alto. Quando finirà però la salita? Sono stanca di vivere sempre in funzione di qualcosa, come se dovessi sempre giungere ad uno scopo più grande (quale?). Vorrei essere in grado di essere, esistere, e basta, e vivere in una società che mi permetta di farlo. Almeno qui, non c’è una morale della favola. Non ho degli insegnamenti da trasmettere, delle lezioni che ho imparato. Forse è proprio questo il punto: a volte è bello condividere i propri pensieri senza che questi siano nella loro forma più compiuta, senza che abbiano uno scopo più grande. Non ho nessuna lezione di vita da dare oggi.