Caduti

189. Sono 189, dall’inizio dell’anno, i cosiddetti “caduti del lavoro” in Italia. “Caduti”, come se il lavoro non fosse che un’altra guerra in cui la morte, seppur indesiderabile, è un rischio da mettere in conto. Pochi giorni fa, l’Inail ha segnalato che si registra già un aumento dei decessi sul lavoro rispetto allo scorso anno, così come un aumento delle denunce di infortuni sul lavoro. L’Istituto ha annunciato che adotterà misure per favorire la prevenzione, tra cui incentivi economici per chi la pratica. Come se garantire la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici fosse uno sforzo eccezionale da premiare.  

Secondo il linguista Giorgio De Rienzo, le “morti bianche” (altro termine che indica le morti sul lavoro) sono dette tali perché “l’uso dell’aggettivo ‘bianco’ allude all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’incidente”. Le responsabilità, tuttavia, esistono. Nel 2021, i morti sul lavoro sono stati più di mille e il settore più colpito è stato quello dell’edilizia. Certamente pericoloso, ma anche uno di quelli in cui, dopo la pandemia, si è spinto di più per la ripartenza. Chissà che l’accelerazione nei tempi di lavoro e la necessità di mantenere costi limitati, entrambe dettate dalle condizioni a cui vengono concessi i bonus, non abbiano contribuito ad abbassare gli standard di sicurezza. 

Se sul web proliferano articoli sul numero delle morti sul lavoro, sui nomi e le storie delle vittime, più difficile è trovare analisi delle cause di queste morti. Praticamente tutti gli articoli menzionano una generica “mancanza di prevenzione”. Sicuramente si dovrebbe fare di più per prevenire, dato che quando uno è morto, curare risulta piuttosto difficile. Ma cosa intendiamo esattamente per “prevenzione”? Una prima risposta, chiaramente, ha a che fare con le misure di sicurezza che devono essere implementate sui luoghi di lavoro, cosa che spesso non accade: non c’è ritorno sugli investimenti in sicurezza, quindi perché farli? 

Non si tratta solo di questo, però. Molte morti, ad esempio, avvengono lungo il tragitto per andare a lavoro. Come mai? Può darsi che i tempi di lavoro impongano di andarci il più velocemente possibile, magari assonnati, può darsi anche che lo stato del trasporto pubblico imponga di andare in auto, una persona per auto, per finanziare meglio l’Eni. Può darsi che trasferte che si rendono necessarie non vengano pagate. Anche dietro alla mancanza di adeguati dispositivi di sicurezza ci sono cause più profonde: una tra tutte, il fatto che i lavoratori siano spesso troppo ricattabili per poter pretendere di essere formati e protetti, soprattutto se sono giovani. C’è poi il tema immenso del lavoro nero, per cui, tra l’altro, non è neanche facile stabilire se i dati di cui siamo in possesso rispetto alla sicurezza sul lavoro siano accurati o meno (la situazione, probabilmente, è ancora peggiore di come la conosciamo). 

Occorre dunque prima di tutto combattere il precariato, sul lavoro e nella vita, fare sì che chi lavora abbia sempre il potere di negoziare ogni diritto e ogni tutela che si renda necessaria. Occorre ripensare i tempi e le logiche di lavoro e produzione, conquistarsi i momenti e gli spazi per vivere bene, per respirare e per far respirare il nostro pianeta. Occorre abituarsi all’idea che forse dovremmo cercare di lavorare il meno possibile, di invertire la rotta di questo nostro mondo in accelerazione costante, prima che il nostro lavoro o i suoi frutti completino la strage. 

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